Guarire se stessi guarendo gli altri
Tempo fa leggevo un articolo relativo al compito dello psicoterapeuta in terapia e del cosa il paziente cerchi quando si rivolge a noi.
L’articolo diceva che il paziente richiede al terapeuta tre cose:
- La speranza di poter stare bene;
- Poter desiderare che stare bene sia possibile anche per lui;
- Trovare le risorse dentro di se per realizzare tutto questo.
A parte rari casi, le persone che vedo solitamente in seduta sono effettivamente carenti di queste componenti, hanno già passato terapie lunghe e costose oppure a volte vengono perché portati da altri(che di solito sono quelli che hanno il reale bisogno di aiuto..).
Molto spesso uso racconti, aneddoti, esperienze personali, prescrizioni paradossali etc..(dipende da caso a caso e da persona a persona) per produrre un cambiamento.
In questo caso l’aneddoto che voglio raccontarti proviene da un dialogo tra E.Rossi e M.H.Erickson e racconta l’esperienza che Erickson fece lottando contro la poliomielite all'età di diciassette anni (il secondo attacco lo ebbe all'età di 51 anni).
Nel seguente dialogo Erickson sì ricorda quella crisi della sua vita, e la propria esperienza di uno stato percettivo alterato, che successivamente riconobbe essere una sorta di autoipnosi.
"E: Quella sera, dal mio letto, udii per caso i tre medici dire ai miei genitori, nella stanza accanto, che il loro ragazzo non sarebbe arrivato al mattino.
Divenni furibondo all'idea che qualcuno potesse dire a una madre che il figlio sarebbe morto entro il mattino.
Poi mia madre entrò con l'espressione più serena che le riuscì di prendere.
Le chiesi di spostare il comò, spingendolo d'angolo contro il lato del letto.
Lei non capiva perché; pensava che stessi delirando.
Parlavo con difficoltà. Ma in quell'angolo, grazie allo specchio che sormontava il comò, riuscivo a vedere attraverso la porta e la finestra di ponente dell'altra stanza.
Non volevo a ogni costo morire senza aver visto un'ultima volta il tramonto.
Se avessi qualche attitudine al disegno, potrei ancora disegnarlo.
R: La tua rabbia e la tua voglia di vedere un altro tramonto sono state un modo di mantenerti vivo in quel giorno critico nonostante le previsioni dei medici. Ma perché la chiami un'esperienza autoipnotica?
E: Vedevo quel vasto tramonto che copriva interamente il cielo. Sapevo però che fuori della finestra c'era anche un albero, ma lo avevo escluso.
R: Lo avevi escluso? Si trattava di quella percezione selettiva che ti permette di dire che eri in uno stato alterato?
E: Sì, non lo facevo consciamente. Vedevo tutto il tramonto, ma non vedevo né la siepe né la grande roccia rotonda che c'erano.
Avevo escluso tutto, meno il tramonto.
Dopo averlo visto rimasi per tre giorni senza coscienza.
Quando tornai in me chiesi a mio padre perché avessero tolto la siepe, l'albero e la roccia.
Non mi rendevo conto d'essere stato io a cancellarli quando avevo fissato tanto intensamente l'attenzione sul tramonto.
In seguito, quando fui guarito e divenni consapevole delle mie condizioni inabilitanti, mi chiesi come avrei fatto a guadagnarmi da vivere.
Avevo già pubblicato un articolo su una rivista agricola nazionale: "Perché i giovani abbandonano la campagna". Non avevo più le forze necessarie per fare l'agricoltore, ma forse avrei potuto farcela come medico.
R: Diresti che è stata l'intensità della tua esperienza interiore, il tuo spirito e il tuo senso di sfida, a tenerti in vita perché potessi vedere il tramonto?
E: Certo ai pazienti con scarse prospettive diciamo: "Dovreste vivere abbastanza per farlo il mese prossimo. E loro lo fanno."
(Milton H. Erickson, Opere vol. I, Astrolabio, Roma 1982, pp. 140-141)
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